Viviamo in un tempo che ci strattona in direzioni opposte.
Da un lato l’intelligenza artificiale spalanca possibilità prima inimmaginabili: creiamo, automatizziamo, ottimizziamo. Sentiamo, per qualche secondo, di avere il controllo, come se avessimo finalmente trovato il modo di domare il caos, come se il senso del nostro essere moderno si riassumesse nello stringere tra le mani le redini di una macchina che tutto può: è il desiderio di controllare l’incontrollabile come direbbe Hartmut Rosa.
Dall’altro lato, quello che sfugge: guerre che non scegliamo ma che ci attraversano, oppressioni lontane che ci raggiungono nel corpo con immagini che non sappiamo metabolizzare, ingiustizie, abusi e terrore per la minaccia atomica, che stritola il discorso della collettività e ne trattiene il fiato. In un libro che ha i miei anni ma che è ancora molto attuale Franco Fornari, psicoanalista, dice che “la bomba atomica è sempre esistita nell’inconscio degli individui umani sotto forma di concrete intenzionalità distruttive, cioè di desideri di controllo sadico assoluto sugli oggetti fantasmatici persecutori” e questo ci riporta al senso di smarrimento che proviamo togliendo il velo alla realtà. Assistiamo impotenti e questa non agency si infiltra nella psiche: genera ansia, confusione, una saturazione percettiva che spesso chiamiamo “stanchezza” ma che è, più profondamente, un sovraccarico emotivo non digerito: l’indigestione del male.
Siamo continuamente esposti a un doppio legame: sii performante, ma resta umano, sii aggiornato, ma non perdere l’anima, sii pronto a tutto, ma non farti consumare. Un comando interno che, se non nominato, rischia di paralizzarci. Quante volte lo abbiamo ripetuto: la parola umanizza e il silenzio animalizza ma da clinici, da esseri umani, sappiamo che quando la realtà non è simbolizzabile, quando non può essere narrata, pensata, mentalizzata, si trasforma in sintomo, o in ritiro.
Per questo credo oggi più che mai nel valore dell’ambiguità come spazio psichico da abitare, non da fuggire. Non credo si possa risolvere, occorre starci dentro, abitando questa stanza con due finestre che affacciano su due cortili diversi, una sull’onnipotenza del progresso e l’altra sull’angoscia del non senso. L’incontrollabile non è un nemico da sconfiggere, ma un “ideale normativo”, sempre citando Hartmut Rosa, perché solo così possiamo aprirci a connessioni profonde che non derivano dal dominio, ma dalla relazione.
E che farsene della paura? Non va negata, né glorificata ma certamente va contenuta. Con tenerezza e fermezza insieme, come si fa con un bambino spaventato: “Ti vedo, ti sento, ma non ti lascio decidere tutto”.
Non userò la parola “resilienza” perché è logora, e troppo spesso usata per raccontare una tenuta senza rottura, che rischia di creare loop. Preferisco pensare alla capacità di attraversare, di restare in contatto con la nostra parte fragile senza farsi travolgere e di stare dove si è senza perdersi.
Il nostro compito come psicologi forse è anche questo: sostenere la complessità e offrire senso proprio dove il senso sembra sgretolarsi. Perché la sfida del nostro tempo sembra essere quella di scendere a patti con l’opacità, e imparare a starci, senza soccombere.
BIBLIOGRAFIA
Rosa, H. (2020). The uncontrollability of the world (J. Wagner, Trans.). Cambridge: Polity Press. (Opera originale pubblicata nel 2019 come “Unverfügbarkeit”)
Fornari, F. (2023). Psicoanalisi della guerra (ed. digitale). Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editore.