La solitudine non è un destino biologico

Essere soli a 50 anni è uguale ad essere soli a 70? La solitudine aumenta con l’età? Il nostro paese invecchia e i temi legati all’invecchiamento restano sempre un po’ sullo sfondo, forse perché sono scomodi da affrontare, un po’ ci ricordano cosa diventeremo e un po’ animano un lontano senso di colpa per i nostri anziani e la loro condizione. La rivista Aging Mental Health nel 2024 ha condotto una ricerca interessante su quasi 64.000 adulti tra i 50 e i 90 anni per comprendere quali fossero i fattori demografici e sanitari legati all’età nella solitudine. Per quanto la solitudine sia molto diffusa, come dicevamo, viene oggi dimenticata dalla narrazione collettiva che però il 2 ottobre ricorda i nonni, c’è da ammetterlo. Ma il rimosso come si sa cresce nell’ombra e il tema della solitudine è davvero importante perché può avere gravi conseguenze sulla salute.
Dalla ricerca sopracitata emerge che la relazione tra età e solitudine nel nostro paese si stringe intorno ad un’età specifica, i 70 anni,  e il punteggio medio italiano di solitudine è uno tra i più alti in Europa. A concorrere ci sono diversi fattori principali: la non occupazione (perché l’uscita dal lavoro genera inevitabilmente più isolamento), la condizione di vedovanza, i sintomi depressivi (presenti nel 35% degli over 50 italiani), il fattore istruzione che incide naturalmente sull’aggravarsi della solitudine.

I fattori precipitanti quindi portano a sostenere che la solitudine non è dunque un destino biologico ma una costruzione sociale che richiede interventi mirati e culturalmente impattanti. Lo studio della Aging Mental Health suggerisce il supporto psicologico e programmi salute mentale per over 65, la promozione alla partecipazione sociale e al volontariato e introduce l’idea di attivare politiche per supportare la vedovanza e ridurre la solitudine abitativa. Essere vedovi, separati o single aumenta infatti drasticamente il rischio di solitudine.

La vera sfida insomma non è mai solo individuale ma politica e sociale: occorre ripensare l’invecchiamento immaginandolo come una fase in cui si partecipa e non in cui ci si isola. Come ricorda Coda infatti (Journal of Psychopathology), l’invecchiamento non va inteso solo come rinuncia e perdita, ma come fase in cui si possono attivare nuove risorse e possibilità. Ciò implica anche che la terapia con gli anziani non debba limitarsi ai modelli tradizionali, ma debba “saper modificare il setting” e adattarsi alle reali condizioni della persona. In questa prospettiva per esempio il colloquio psicologico telefonico rappresenta una via accessibile e flessibile, capace di offrire ascolto e sostegno anche a chi fatica a muoversi, non ha familiarità con il digitale o non desidera mostrarsi in video.

Parlare di invecchiamento oggi e pensare davvero all’invecchiamento significa assumersi una responsabilità collettiva, significa parlare di futuro, di ciò che resta e può ancora trasformarsi.

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