C’è una parola che ultimamente torna in continuazione nei discorsi che ascolto, in quelli a cui partecipo e nei ragionamenti che faccio: millennials.
La generazione dei 25-35enni su cui tutti stanno concentrando attenzioni e campagne marketing specifiche.
Alcuni allargano la forbice d’età facendola partire dai 15 anni ma è, in quel caso, una tendenza errata alla generalizzazione.
Per lavoro, negli ultimi tre anni ho letto libri autorevoli, analisi psico comportamentali, documenti riservati, domandandomi sempre la stessa cosa: ma, dieci anni fa, vent’anni fa, noi quarantenni di oggi non eravamo come loro?
Non siamo stati tutti millennials una volta nella vita?
Secondo me sì.
Ci siamo passati tutti dalla fase ego riferita, ci siamo passati tutti dall’urgenza di dire in svariati modi, ci siamo passati tutti, chi più, chi meno.
Oggi è mutato il contesto, certo, sono mutati i mezzi, sono diverse le prospettive, sono diversi i genitori, ma la sostanza, il centro esatto della questione che riguarda i ragazzi di oggi sta nell’aspirazione, drammatica o meno che sia, di essere centrali per qualcosa o qualcuno, differenti dagli altri, e sostanzialmente amati.
Lasciare un segno, cambiare il mondo, diventare qualcuno.
“Io, io, io” l’abbiamo gridato anche noi. Luis Miguel di più ma gli abbiamo fatto il coro però.
Millennials forse non è davvero un nuovo target, è più uno stato d’animo, una condizione dell’essere e dell’avere.
Per questo forse ne parliamo così tanto senza capirci molto. Perché in fondo, da qualche parte, ci riguarda e ci appartiene, è la nostra storia.